Gio05022024

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Nella leggendaria sfida tra Merckx e Gimondi spunta Gianni Motta

Il nome di Gianni Motta riecheggia, nella mente degli appassionati dai cappelli grigi, come uno dei protagonisti di un ciclismo d'altri tempi, fatto di telai in ferro, di strade sterrate, di imprese epiche e grandi rivalità.

Il vincitore del Giro d'Italia edizione 1966 è universalmente conosciuto come il “terzo incomodo" nella leggendaria sfida tra Eddie Merckx e Felice Gimondi. Ed è opinione di tanti addetti ai lavori che l'essere nato in un'epoca costellata di leggende non abbia aiutato Motta ad avere un palmares proporzionale alla sua immensa classe. Se fosse vissuto in un'epoca diversa, c'è da scommetterci, il suo palmares sarebbe stato assai più ricco.

Gianni Motta, lei ha vinto, tra le altre cose, Giro d’Italia, Giro di Svizzera e Giro di Romandia. Ma nella sua carriera c'è qualche rimpianto?

"Sì, purtroppo in bacheca mi manca qualche classica di prestigio. Penso, ad esempio, alla Milano – Sanremo, in cui per ben due volte sono arrivato secondo; oppure alla Parigi – Roubaix, dove a 15 chilometri dal traguardo ho forato quando avevo un minuto di vantaggio sui secondi. Ripartii con rabbia, ma arrivai comunque ottavo. Il terzo posto al Tour de France, invece, lo ricordo molto volentieri: solo venti giorni prima avevo ancora il gesso per un incidente al ginocchio, dunque non ebbi molto tempo per prepararlo al meglio. Arrivare terzo fu bello come una vittoria".

Adriano De Zan di lei scrisse: “In realtà Motta era l’unico capace di far innervosire Eddie Merckx: il suo sorrisetto beffardo, quando lo batteva, mandava su tutte le furie il Cannibale”. Ma forse ancora più famosa era la sua rivalità con Gimondi. Che ricordo ha di loro?

"Eddie era un campione assoluto, uno dei più grandi della storia del ciclismo. Mi ha battuto tante volte, così quando capitava che, una volta tanto, mi arrivava dietro era sempre un’enorme soddisfazione. Per quanto riguarda Felice, la nostra è stata una rivalità piena di cattiveria agonistica, com’è giusto che sia. D’altronde, eravamo due persone dal carattere opposto: io ero abituato a dire le cose in maniera schietta e diretta, mentre lui prima di dire ciò che gli passa per la testa ci pensava almeno due o tre volte. E’ normale che due personaggi come noi si scontrassero".

Il ciclismo ce l’ha ancora nel sangue: oltre alla Granfondo Gianni Motta, al termine della carriera ha aperto un’azienda che costruisce telai. Ha trovato modo di far fruttare il suo famigerato perfezionismo nell’assetto delle biciclette?

"Certo ed è stato un approdo quasi scontato. Da corridore ero molto esigente con meccanici e costruttori, tanto che avevo sempre con me le chiavi inglesi così durante le corse potevo modificare la posizione del manubrio e della sella. Ho iniziato questa attività venticinque anni fa, devo dire con buon successo: i telai che producevamo erano di assoluta qualità, il lavoro veniva compiuto in maniera ottimale, i nostri articoli erano apprezzatissimi dai ciclisti. Ormai ho smesso, ma ancora oggi qualcuno s'ispira ai disegni dei nostri telai, segno che il nostro lavoro è apprezzato tutt’oggi".

Pedala ancora nelle cicloturistiche?

"Ogni tanto mi invitano a qualche Granfondo a cui partecipo in amicizia, magari perchè conosco gli organizzatori, ma questo accade sempre meno. Ormai mi fanno un po’ paura le manifestazioni con tremila e più partecipanti: cadere una volta era normale, ma alla mia età può diventare problematico!"

Molti dicono che nel ciclismo di una volta c’era più poesia. E’ d’accordo?

"Mah, un ciclismo vale un altro: chiunque lo pratichi si innamora del periodo in cui lo fa. I nostri tifosi, quelli della nostra età, quelli che ricordano ancora con affetto le nostre imprese, adoravano quel tipo di ciclismo perché hanno avuto tempo e voglia di seguirci: probabilmente sarà la stessa cosa tra qualche anno per coloro che seguono questo sport al giorno d'oggi. Ogni periodo storico ha i suoi lati positivi, le sue leggende, le sue poesie. Forse una volta eravamo meno sofisticati: per esempio, dovevamo cercare le cabine telefoniche se volevamo sentire qualcuno, così si finiva per incontrarsi anche al di fuori delle gare. Oggi, grazie alla tecnologia, partecipare ad una corsa a tappe equivale ad essere in ritiro. Quello di oggi è ancora un bel ciclismo: purtroppo l’esasperata ricerca al “dopato” ne ha fatto perdere un po’ del suo fascino. Oggi un genitore ci pensa un paio di volte se il proprio figlio vuole correre in bicicletta. In realtà, il ciclismo è uno sport meraviglioso, fa bene alla salute: non è vero quel che si dice, che tutti i ciclisti hanno qualcosa da nascondere. I controlli oggigiorno sono serrati, difficile eluderli: e se su tanti professionisti ogni tanto ne vengono scoperti un paio, ciò non significa che la maggioranza non affidi il proprio successo al lavoro, all’allenamento e al sudore della fronte".

 

A cura di Andrea Agostini direttore della rivista InBici .... passione sui pedali